Gilles Deleuze, “L’esausto” (Nottetempo)

Gilles Deleuze è stato senza dubbio uno dei filosofi più avanguardisti del secondo Novecento, in forza del suo pensiero originale e alternativo che è sovente diventato la base teorica di molte delle rivoluzioni culturali degli anni Sessanta e Settanta, seppur il dinamismo intellettuale della sua filosofia andava sempre ben oltre i meri ambiti ai quali veniva correlato, toccando aspetti maggiormente più umanistici – nel senso classico del termine – che meramente politici. Io lo conobbi quando scrissi Alice, la voce di chi non ha voce, il libro sulla storia di Radio Alice, una delle prime radio libere italiane e la più emblematica di quella piccola-grande rivoluzione espressiva e mediatica di metà anni Settanta, dacché tra le basi culturali del movimento post-Sessantottino dal quale uscirono i creatori della radio e, ancor più, del nuovo e peculiare modo di “fare radio”, c’era L’Anti-Edipo, una delle opere più importanti scritta da Deleuze insieme a Félix Guattari, ma anche Logica del senso, altra opera di Deleuze che “utilizzava” per le sue elucubrazioni l’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, ulteriore punto di riferimento culturale ed espressivo degli ideatori di Radio Alice.

Poi l’amico filosofo Giacomo Paris, per una classroom sul web che abbiamo tenuto insieme lo scorso 11 maggio, mi ha suggerito di discorrere di un’altra opera di Deleuze che non conoscevo e che a suo dire si mostra assai adatta al periodo difficile in corso nel mentre che scrivo questo articolo. L’opera è L’esausto, (Nottetempo, 2005, traduzione e cura di Ginevra Bompiani, postfazione di Giorgio Agamben), un testo assai succinto tanto quanto denso e per questo piuttosto “cervellotico”, ad una prima lettura, che Deleuze scrisse quando le sue condizioni di salute si erano aggravate facendo che, probabilmente, tale stato di prostrazione venisse “rappreso” nella scrittura estenuata e tormentata, quasi sofferente.

Eppure, nonostante queste potenziali impressioni primarie, L’Esausto è pure un testo assolutamente potente nel mostrare, paradossalmente, quella dimensione di sfinimento del suo autore che si fa modello – o “antimodello” di e per se stesso – per una riflessione sul concetto di “penultimità”, ovvero di quello stato psicofisico (ma per questo pure culturale, mentale, spirituale, antropologico) nel quale la stanchezza abbatte l’uomo anche in modo pesante ma comunque generando in lui la volontà, la necessità, il bisogno di un’ultima reazione, che potrebbe essere l’atto di rinascita, di rinvigorimento o comunque un ennesima manifestazione di vita, dunque semmai la penultima azione vitale ma non certo, o non ancora, l’ultima. A differenza dell’esaurimento, invece, stato nel quale le possibilità di un atto ulteriore, di una reazione estrema, di una scossa o fremito di vita non ci sono più, e l’uomo non può fare altro che adoperarsi per “continuare a finire”. «Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare», scrive Deleuze: ovvero, lo stanco è tale ma gode ancora della possibilità di rivitalizzarsi, l’esausto no. È una condizione posta già oltre il limite finale, per così dire, senza più poter tornare indietro, che il filosofo francese esprime, con particolare simbolismo metaforico, nell’atto dello stare seduto – ciò a cui era costretto per le sue condizioni di salute, facendo di se stesso il modello “negativo” del proprio pensiero, appunto – in contrapposizione allo stare sdraiato, condizione invece che secondo Deleuze permette ancora qualche moto, dunque conserva qualche possibile vitalità. Come precisa poi Agamben nella sua postfazione, «dal latino sedeo derivano cosí desidia e desidiosus, che significano l’inerzia, lo starsene seduti senza far niente, e sedare, che significa far cessare, mettere fine a un’occupazione o a un movimento»; lo stesso termine desiderare in origine derivava la sua accezione dal “sentire la mancanza di” (delle stelle, nello specifico), dunque un significato sostanzialmente negativo, di delusione e rimpianto, che trovava il suo contrario nel termine considerare.

Ma in effetti sono numerose le antitesi rintracciabili ne L’esausto: non solo quella tra stanchezza ed esaurimento, ma anche tra la postura e il gesto (col secondo come atto finale che risolve il primo e lo esaurisce) oppure tra il pensiero e il corpo, il nulla e il vuoto, la perfezione e la perfettibilità, il vivibile e il vissuto, nonché tra i personaggi di Samuel Beckett che Deleuze prende come riferimenti letterari funzionali al suo pensiero – anche in forza della sua vicinanza intellettuale con il grande drammaturgo irlandese – e cita spesso, in particolare Murphy e Watt (ma vi sono altri riferimenti letterari nel testo, come ordinariamente accade nei libri di Deleuze: Kafka, Melville, il già citato Lewis Carroll, Yeats, eccetera).

Per tutto ciò, la lettura de L’Esausto in questo tempo di coronavirus, e in forza delle varie reazioni sociologiche generate dalle circostanze ed espresse in vario modo dalle persone, spesso improntate a dichiarazioni di “stanchezza” o di “esaurimento” (pur con tutta la superficialità con cui vengono utilizzati i due termini), diventa estremamente interessante: viene quasi intuitivo associare le manifestazioni di rinnovata vitalità a condizioni di “stanchezza deleuziana”, ovvero alla capacità di mantenere viva la possibilità di rigenerarsi dopo quanto accaduto e nonostante le eventuali conseguenze subite, mentre quelle altre condizioni di prostrazione profonda, proprie di chi si sia fatto travolgere dalle difficoltà del momento senza opporre resistenza o reazioni, dunque sedendosi inerzialmente e così esaurendo la possibilità di rivitalizzarsi, attendendo solo la fine – sia essa metaforica o concreta (cioè continuando a finire) – con l’esaurimento postulato da Deleuze. Il quale, come detto, in qualche modo si presenta nel saggio come “esempio da non imitare”, ovvero come individuo senziente che sa capacitarsi della sua perdita della facoltà di possibilizzare e, per questo, sceglie coscientemente di esaurire la propria dimensione vitale. Diventando così “monito”, ribadisco, per tempi come questo nei quali ad alcuni pare che si esaurisca ogni possibilità di reazione ovvero ci viene tolta, – e spesso così è in effetti, anche per meccanismo mentale indotto da altri, posti sopra la collettività – per risolvere ogni propria postura in meri gesti meccanici privi di qualsiasi pensiero, in corpi che ricordano sempre più automi piuttosto che esseri umani vivi, vitali e viventi, e che in tale condizione “esaurita” diventano facili e inermi prede per qualsiasi virus: biologico tanto quanto culturale, sociologico, psicologico.

Testo difficile da leggere, certamente, ma per questo da affrontare più volte, con diversi sentimenti e atteggiamenti mentali nonché crescente attenzione, così goderne via via della sua tutta deleuziana cioè originale e preziosa particolarità filosofico-culturale.