Alek Popov, “I cani volano basso” (Keller)

cop-i-cani-volano-bassoAaaah, il sogno americano! Quella chimera così scintillante, forte, entusiasmante… o deleteria, nociva, appestante – certo, dipende da che punto si osserva la questione e con quali lenti… Di sicuro non serve rimarcare quanto l’America, dal dopoguerra in poi, sia diventata non solo la guida politico-economica (e militare, ahinoi) del mondo occidentale, ma anche una sorta di eden da imitare nel modo più assoluto e assolutista possibile oppure, meglio ancora, da raggiungere. E se ciò è stato valido (e lo è ancora, sotto molti aspetti) per noi europei dell’Ovest, figuriamoci quanto lo potesse essere, in modo ben più terremotante, per gli europei orientali soggiogati fino a poco più di due decenni fa dai regimi di matrice sovietico-comunista! Un sogno, una chimera, un’utopia di libertà e di benessere che pareva appartenere ad un’altra galassia, per quei popoli. Poi la storia ha fatto il suo corso, la cortina di ferro si fonde e liquefa, l’America torna ad essere parte dello stesso pianeta comune e, insieme a tanti altri, i fratelli Banov, Ned e Ango, possono finalmente coronare il loro sogno a stelle e strisce – sempre che di sogno si tratti veramente…
Sono appunto loro, Ned e Ango Banov, due fratelli bulgari assai diversi tra di loro nel carattere ma assai meno negli intenti, i protagonisti del romanzo di Alek Popov I cani volano basso (Keller Editore, 2013, traduzione di Sibylle Kirchbach), che negli USA vi giungono sulle orme, anzi, sulle ceneri del padre, ricercatore universitario emigrato oltre oceano e mai più tornato a casa se non, appunto, da deceduto e cremato. Ned è il primo a seguire la strada percorsa dal padre, e quel sogno americano riesce a pure a realizzarlo in modo piuttosto concreto, in una multinazionale che gli garantisce un certo benessere e una buona carriera monca, come tutte le carriere concesse ad un emigrato di un paese non troppo prestigioso per la cultura americana, e la Bulgaria suo malgrado lo è. Ango ci arriva dopo, ben più squattrinato fin dalla partenza e precario per necessità, tant’è che si adatta a lavorare da dog-sitter nell’agenzia di una tizia alquanto ambigua e al servizio dei “migliori amici” (i cani, appunto) di alcune tra le più facoltose famiglie di New York. Entrambi, tuttavia, nutrono seri dubbi sul fatto che quelle ceneri paterne ricevute anni prima direttamente in madre patria siano effettivamente del padre, il quale anzi pare abbia scelto questo sistema per far perdere definitivamente le tracce di sé ovvero per tagliare qualsiasi ponte con il suo passato bulgaro. Dubbi che certe vaghe impressioni, intuizioni, immaginazioni mantengono vivi ma le quali pure, al contempo, finiscono per ribaltare i destini inizialmente opposti dei due fratelli, i quali si ritroveranno a capire quanto il tanto agognato sogno americano, prodotto strategicamente perfetto realizzato dal capitalismo consumistico a stelle e strisce esportato in tutto il mondo, sia in verità qualcosa di estremamente distorto, illogico, sfuggente e illusorio – soprattutto se poi lo si sfida apertamente andando a giocarsi i propri denari nella parte più oscura e pericolosa di esso, il mercato borsistico.
I cani volano basso – prima personale lettura di un’opera scritta da un autore bulgaro, e Popov è oggi tra i principali e più stimati di quel paese e della sua letteratura contemporanea – è un romanzo di quelli che, per così dire, assomigliano a certi brani musicali le cui armonie ascolti con piacere ma che, alla fine, ti lasciano l’impressione che manchino del guizzo geniale definitivo, dell’accordo-capolavoro, della melodia che ti si piazza in mente e non ti lascerà mai più. E’ un libro divertente, dinamico, dalla storia ben concepita e svolta tuttavia, rispetto ad un’immaginaria linea di valore medio che può caratterizzare un romanzo del genere e servirne da ordinario metro di giudizio, è sovente un poco più sopra o un poco più sotto, come se avesse in certi casi qualcosa in più del necessario e in altri qualcosa in meno. Per dire: ha, secondo me, un centinaio di pagine di troppo, che se tolte renderebbero la narrazione ancora più dinamica e frizzante, oppure ha uno svolgersi degli eventi che in un paio di casi si appoggia su invenzioni narrative un po’ sui generis, cioè poco lineari rispetto al resto della trama, come se tali svolte più o meno improvvise si siano rese necessarie per portare avanti la storia e non impantanarla in ambiti troppo “ordinari”. D’altro canto, la critica al capitalismo americano (e occidentale) che viene annunciata nelle note del libro c’è ma è fin troppo “tranquilla” ovvero poco incidente sull’identità letteraria del romanzo, così come il “rotolarsi sul pavimento per le risate” citato sulla copertina (da Vormagazin, suppongo sia il sito web di cultura e costume austriaco) a me non è proprio accaduto – anzi, alcune pagine risultano a ben vedere piuttosto drammatiche, pure. E’, ribadisco, un libro gradevole da leggere dal quale ci si aspetta da una pagina all’altra il guizzo di genio ovvero il capitolo fenomenale, che si intuisce l’autore abbia nelle proprie corde e che farebbe compiere, al libro, un bel salto di livello, ma questo non giunge, resta nascosto da qualche parte nella narrazione. Sia chiaro, per non equivocare: non è affatto un giudizio negativo generale, il mio – essendo poi personale ergo ovviamente opinabile quanto si vuole, e se qualcuno mi chiedesse un parere sul leggerlo o meno, certamente direi che si può tranquillamente leggere. Diciamo che la sua lettura è stata per me come un’escursione in montagna con tempo nuvoloso: bella e divertente comunque ma, con una bella e limpida giornata, magari lo sarebbe stata di più.

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